domenica 18 gennaio 2009

Parroci, parrocchie, movimenti ecclesiali


Incontro con un gruppo di parroci Pallottini
(Pontificio Consiglio per i Laici, 15 settembre 2008)





1. Introduzione


Desidero iniziare questo nostro incontro presso la sede del Pontificio Consiglio per i Laici salutando ognuno di voi, sacerdoti Pallottini, che esercitate il vostro ministero pastorale in parrocchie di tutti i continenti. Avete voluto inserire l’odierno appuntamento nel contesto di un incontro formativo internazionale organizzato dal Segretariato generale per l’apostolato, organo ausiliare del Consiglio generale della vostra Società, allo scopo di approfondire ulteriormente la vita della realtà parrocchiale animata dall’esperienza della spiritualità che avete ricevuto dal vostro fondatore, san Vincenzo Pallotti (1795-1850), spiritualità che si esprime in modo visibile nell’Unione dell’Apostolato Cattolico, associazione internazionale di fedeli eretta nell’anno 2003, come ben sapete, da questo Dicastero.
Per essere sincero, devo dirvi che in questo momento provo la sensazione di essere un commerciante che cerca di vendere del miele proprio a degli apicoltori. Sono certo della vasta esperienza nella cura parrocchiale che tutti voi ormai avete, e che sareste perfettamente in grado di fornire validi spunti di riflessione sulla tematica che oggi ci occupa in questa sede, spunti che potrebbero essere di grande arricchimento reciproco. Inoltre, siete sacerdoti che partecipate di un carisma particolare nella Chiesa che nutre quotidianamente la vostra vita spirituale e quindi tutto il vostro ministero.
Comunque sia, nel mio intervento cercherò d’inquadrare il meglio possibile l’argomento con lo scopo di suscitare la vostra riflessione personale, come pure la partecipazione al successivo colloquio.
Come ben sapete, la parrocchia è stato l’argomento specifico delle ultime due Assemblee plenarie di questo Dicastero, tenutesi a Roma negli anni 2004 e 2006, i cui Atti sono stati ormai pubblicati e si trovano a vostra disposizione. Sono certo che in quei testi potrete incontrare elementi che gioveranno senza dubbio al vostro personale e comune approfondimento sul tema, in vista del lavoro pastorale che andrete a proseguire nelle parrocchie.
Ripensare la parrocchia al fine di riscoprire il suo vero volto, potrebbe portarci alla conclusione che ci troviamo di fronte a una realtà ecclesiale semper renovanda, cioè che abbisogna di costante rinnovamento. Del resto, non deve stupirci una tale situazione. In occasione dell’ultima Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici, papa Benedetto XVI affermava: «L’auspicato rinnovamento della parrocchia, dunque, non può scaturire solo da pur utili ed opportune iniziative pastorali, né tanto meno da programmi elaborati a tavolino. Ispirandosi al modello apostolico, così come appare negli Atti degli Apostoli, la parrocchia “ritrova” se stessa nell’incontro con Cristo, specialmente nell’Eucaristia. Nutrita del pane eucaristico, essa cresce nella comunione cattolica, cammina in piena fedeltà al Magistero ed è sempre attenta ad accogliere e discernere i diversi carismi che il Signore suscita nel Popolo di Dio»1.
Mi preme chiarire subito che per parrocchia non possiamo intendere solamente una certa struttura ecclesiale più o meno vicina ai bisogni spirituali dei singoli fedeli (l’ascolto della parola di Dio e i sacramenti), dotata di un insieme di organismi (consiglio pastorale, consiglio economico ecc.), nonché di diversi servizi pastorali (catechesi, ministeri non ordinati, azione caritativa ecc.) che la configurano al suo interno. Questa visione potrebbe diventare alquanto riduttiva, portando a concepire il rinnovamento della parrocchia come la trasformazione del suo assetto organizzativo; ma soprattutto, potrebbe offuscare il suo genuino significato di essere essenzialmente una comunità di fedeli costituita stabilmente in una Chiesa particolare, e affidata alla cura pastorale del parroco quale pastore proprio (SC, 42; CIC, can. 515 § 1; CCEO, can. 279). Il decreto conciliare Apostolicam Actuositatem sull’apostolato dei laici, definisce la parrocchia «cellula della diocesi» (AA, 10/c), in quanto costituisce la componente pastorale elementare della Chiesa particolare. Di conseguenza, la parrocchia non può essere definita dai suoi elementi strutturali, bensì dalle persone che la compongono: la comunità dei fedeli («una “famiglia” di famiglie cristiane», se vogliamo usare le parole di Benedetto XVI2) e il parroco.
Una prima conclusione che possiamo trarre da quanto detto è che il vero rinnovamento della parrocchia non consiste nel cambiamento delle sue strutture, seppure necessario con il passare del tempo, ma nel rinnovamento, nella conversione del cuore - se vogliamo parlare in questi termini - dei fedeli che la compongono. In questa sede tratteremo della figura del parroco, in quanto egli esercita, come ben sapete, un ruolo essenziale nella parrocchia.




2. Vivere il sacerdozio carismaticamente


Rivolgendosi ai partecipanti al Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali, convocato a Roma dal Pontificio Consiglio per i Laici nel maggio 1998, l’allora cardinale Joseph Ratzinger volle trattare della necessità di superare la contrapposizione dualistica tra la dimensione istituzionale e quella carismatica nel descrivere la realtà della Chiesa. Essa è strutturata stabilmente dal sacramento dell’Ordine che, proprio perché sacramento, trova la sua origine ultima nella chiamata che Dio rivolge a un uomo determinato e alla sua libera risposta ad accogliere la vocazione a diventare ministro sacro. Le vocazioni al sacerdozio, lo sappiamo bene, non possono essere “create” dalla Chiesa allo stesso modo che un governo crea un determinato numero di posti di lavoro di funzionari statali perché, appunto, le vocazioni sono sempre un dono di Dio che bisogna chiedere continuamente.
In questa prospettiva, il cardinale Ratzinger affermava che il sacro ministero deve essere inteso e vissuto carismaticamente. Il sacerdote dev’essere un homo spiritualis, che si lascia trascinare dallo Spirito Santo,3 e aggiungeva: «là dove il ministero sacro sia vissuto così, pneumaticamente e carismaticamente, non si dà nessun irrigidimento istituzionale: sussiste, invece, un’interiore apertura al carisma, una specie di “fiuto” per lo Spirito Santo e il suo agire. E allora anche il carisma può nuovamente riconoscere la sua propria origine nell’uomo del ministero, e si troveranno vie di feconda collaborazione nel discernimento degli spiriti».4
Proseguendo queste considerazioni del cardinale Ratzinger, possiamo affermare che il compito del parroco non consiste nell’esercizio di un ruolo funzionale, in questo caso nella distribuzione nel modo più confacente possibile dei beni spirituali della Chiesa, soprattutto la parola di Dio e i sacramenti, e nel disbrigo di diverse pratiche burocratiche attinenti la vita della parrocchia. Un parroco che intendesse così il suo compito nella Chiesa avrebbe dimenticato il suo essere più profondo, in quanto uomo chiamato, consacrato ed inviato dallo stesso Spirito del Signore.
Nella vostra esperienza pastorale avrete certamente incontrato parroci e vicari parrocchiali in genere favorevolmente predisposti verso le nuove realtà ecclesiali, tra cui vanno annoverati i movimenti ecclesiali e le nuove comunità, e altri con atteggiamenti più o meno riottosi nei loro confronti. Ritengo che non si tratta di una mera questione di carattere personale, cioè di temperamento più o meno accogliente, oppure di mentalità più aperta (open mind) per ragioni di età, o della qualità della formazione ricevuta in seminario, dell’esperienza acquisita durante gli anni di esercizio del ministero sacerdotale, ecc. A mio avviso, si tratta invece di un’evidente manifestazione del modo in cui il sacerdote vive carismaticamente o meno la propria vocazione al sacro ministero, di quanto egli sia aperto allo Spirito, se è diventato o meno, cioè, un homo spiritualis. D’altro canto, vale la pena non perdere di vista il fatto che le nuove realtà ecclesiali sono vere e proprie irruzioni dello Spirito Santo, che agisce all’interno della dinamica della storia della Chiesa elargendo continuamente i suoi doni a beneficio di tutti i fedeli.



3. La preghiera nella vita spirituale del sacerdote: «Dio è la prima priorità» (Benedetto XVI)


Arrivati a questo punto, bisogna fare un cenno alla preghiera nella vita spirituale del sacerdote. Il 15 giugno scorso, incontrando nella cattedrale di San Lorenzo di Brindisi il clero, i diaconi e i seminaristi, il papa ebbe a rivolgersi ai sacerdoti con queste parole: «Cari fratelli sacerdoti, perché la vostra sia una fede forte e vigorosa occorre, come ben sapete, alimentarla con un’assidua preghiera. Siate pertanto modelli di preghiera, diventate maestri di preghiera. Le vostre giornate siano scandite dai tempi dell’orazione, durante i quali, sul modello di Gesù, vi intrattenete in un colloquio rigenerante con il Padre. So che non è facile mantenersi fedeli a questi quotidiani appuntamenti con il Signore, soprattutto oggi che il ritmo della vita si è fatto frenetico e le occupazioni assorbono in misura sempre maggiore. Dobbiamo tuttavia convincerci: il momento della preghiera è il più importante nella vita del sacerdote, quello in cui agisce con più efficacia la grazia divina, dando fecondità al suo ministero. Pregare è il primo servizio da rendere alla comunità. E perciò i momenti di preghiera devono avere nella nostra vita una vera priorità. So che tante cose ci premono: per quanto mi riguarda, un’udienza, una documentazione da studiare, un incontro o altro ancora. Ma se non siamo interiormente in comunione con Dio non possiamo dare niente neppure agli altri. Perciò Dio è la prima priorità. Dobbiamo sempre riservare il tempo necessario per essere in comunione di preghiera con nostro Signore»5.
Mi è sembrato molto opportuno riportare questa citazione del papa perché essa racchiude un grande insegnamento per tutti noi, sacerdoti di Gesù Cristo. Il papa è ben consapevole delle tante incombenze che gravano sulla vita del ministro ordinato. Anche lui è nella stessa condizione, come pastore della Chiesa universale. Ma proprio perché rivestiamo questo divino ministero abbiamo bisogno della preghiera. È proprio nel dialogo con Dio, nella meditazione della sua Parola, che possiamo attingere le forze necessarie per portare a compimento un lavoro pastorale intenso con vera efficacia. Nessuno, infatti, può dare quello che non possiede.
A questo proposito, il cardinale Ratzinger aveva scritto: «Negli ultimi decenni l’interiorità è stata sospettata di intimismo e privatismo. Ma il servizio senza interiorità diventa vuoto attivismo. Il fallimento di non pochi sacerdoti che si erano accostati al loro incarico con grande carica di idealismo si basa ultimamente su questo sospetto di interiorità. Il tempo per Dio, per il proprio stare davanti a lui è una priorità pastorale, di pari grado con tutte le altre priorità, anzi in un certo senso di loro più importante. Essa non è un peso aggiuntivo, bensì il respiro dell’anima senza il quale necessariamente noi restiamo senza fiato: perdiamo il respiro spirituale, il respiro dello Spirito Santo in noi. (...) Il modo fondamentale di staccare dal lavoro e imparare nuovamente ad amarlo è la ricerca interiore di Dio, che sempre ci restituisce la gioia in Dio»6.
La preghiera, sia comunitaria che personale, è il primo impegno pastorale del sacerdote e, non lo possiamo dimenticare, la prima finalità della vocazione apostolica: «Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare...» (Mc 3, 14-15). Utilizzando anche le parole che la Liturgia della Santa Messa ci fa rivolgere al Padre, noi sacerdoti siamo stati chiamati per «astare coram te et tibi ministrare»7.
Alcune settimane fa, nella memoria liturgica di san Giovanni Maria Vianney (1786-1859), abbiamo letto nel divino Ufficio un bel frammento del suo Catechismo sulla preghiera che vorrei presentare alla vostra considerazione: «Ascoltate: quando ero parroco di Bresse, dovendo per un certo tempo sostituire i miei confratelli, quasi tutti malati, mi trovavo spesso a percorrere lunghi tratti di strada; allora pregavo il buon Dio, e il tempo, siatene certi, non mi pareva mai lungo»8. È una testimonianza importante, questa del Curato d’Ars, che può illuminare il nostro ministero. Le difficoltà che egli dovette superare furono veramente molto più gravi di quelle che la stragrande maggioranza di noi deve affrontare quotidianamente. Ma, innanzi tutto, questa è la testimonianza di un santo sacerdote.



4. Aspetti del rapporto tra il parroco e i movimenti ecclesiali all’interno della comunità parrocchiale



In quanto sacerdoti impegnati nella cura pastorale delle parrocchie, siete testimoni dell’irruzione dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità all’interno della vita parrocchiale. Si tratta di fedeli laici che vivono un carisma determinato, che comporta un impegno di vita cristiana in vista della santità e dell’azione missionaria nella Chiesa secondo specifiche modalità. Mi riferisco, ovviamente, a realtà ecclesiali sulle quali l’autorità ecclesiastica (Vescovo diocesano, Conferenza episcopale, Santa Sede) ha ormai effettuato il proprio discernimento ed ha espresso un giudizio positivo, giudizio reso pubblico nella diocesi grazie al riconoscimento formale che normalmente viene concesso in questi casi. Ma sorge subito la domanda: Come comportarsi nei loro confronti? Cosa fare, come parroci, per questi fedeli? In genere il rapporto con loro risulta facile, ma altre volte non si sperimenta la stessa facilità. La presenza di queste realtà è veramente un dono, o diventa un ingombro che disturba i progetti del parroco? Queste e altre simili sono le domande che vi ponete quotidianamente, oppure che vi vengono presentate da altri parroci nei momenti di colloquio o scambio di esperienze. Devo ammettere che non ci sono risposte univoche e valide per tutte le situazioni; le risposte dipenderanno certamente dalla situazione pastorale di ogni parrocchia. In ogni caso, possiamo cercare d’individuare alcuni lineamenti che ci possono aiutare a trarre delle conclusioni. Da tutto questo dipende in buona parte la sorte della nuova evangelizzazione.
In primo luogo, direi che il parroco deve essere sempre una persona che cerca di coltivare un rapporto aperto, generoso e disponibile nei confronti di tutti i parrocchiani (e gli appartenenti ai movimenti ecclesiali e alle nuove comunità certamente lo sono!), che va incontro a questi fedeli con un atteggiamento di rispetto, di sincero apprezzamento per quelle realtà ecclesiali e per i loro aderenti. È vero che difficilmente il parroco potrà diventare un esperto conoscitore dei carismi di tutte le nuove realtà ecclesiali esistenti fino a quel momento, e nemmeno gli si può chiedere di condividere personalmente tutte le loro proposte formative e di evangelizzazione. Ciò che forse potrà fare sarà impegnarsi a conoscere la spiritualità delle realtà aggregative a cui appartengono alcuni dei parrocchiani, almeno a grandi linee; questo sarebbe un bel gesto che dimostrerebbe interessamento e attenzione nei loro confronti. In ogni caso è auspicabile che il parroco sia vicino a questi parrocchiani, li ascolti, li tenga in considerazione, in definitiva si comporti nei loro confronti come un padre. A questo proposito, nell’enciclica Redemptoris Missio, il servo di Dio Giovanni Paolo II incoraggiava i movimenti ecclesiali ad inserirsi con umiltà nella vita delle Chiese locali, come pure ad essere accolti con cordialità da Vescovi e sacerdoti nelle diverse strutture diocesane e parrocchiali9. Più recentemente, papa Benedetto XVI chiedeva a un gruppo di vescovi tedeschi «di andare incontro ai Movimenti con molto amore»10.
Questo atteggiamento del parroco dovrebbe favorire lo sviluppo della vita parrocchiale e degli stessi progetti pastorali in cui essa è impegnata. Se, infatti, i parrocchiani (sia coloro che non partecipano alla vita di nessuna realtà aggregativa particolare, sia gli appartenenti a movimenti ecclesiali e nuove comunità) si conoscono reciprocamente, essi potrebbero cooperare nell’apostolato in cui è impegnata l’intera parrocchia, dando luogo a valide sinergie che darebbero certamente risultati positivi.
Nel rapporto con i movimenti ecclesiali presenti all’interno della parrocchia, il parroco dovrà evitare in tutti i modi possibili l’atteggiamento - per così dire - del “vigile urbano”, cioè l’atteggiamento di chi ha come scopo essenziale ordinare il “traffico” della vita parrocchiale, affinché si circoli al meglio possibile, evitando “scontri” tra i fedeli. Il parroco non è un soggetto che sta al di fuori di questo “traffico”, anzi è molto implicato in esso proprio perché pastore della comunità parrocchiale. Il parroco deve fare in modo di condurre continuamente tutte le anime a Dio, senza che nessuno si senta escluso dalla sua sollecitudine pastorale. D’altra parte, non gioverebbe affatto che alcuni parrocchiani appartenenti a movimenti ecclesiali, si accaparrino la totalità delle attenzioni pastorali del parroco, e che gli altri ricevano meno attenzioni. Inoltre, l’identificazione eccessiva di una parrocchia con un movimento ecclesiale determinato, tramite la persona del parroco o di alcuni dei suoi collaboratori, rischia di apparire una scelta non rispettosa degli altri parrocchiani e potrebbe portare a conseguenze spiacevoli, facendoli sentire soggetti meno corresponsabili. Il rispetto per la libertà dei fedeli rende necessario non imporre ai parrocchiani un determinato carisma, ma svolgere l’azione pastorale in un modo accettato da tutti. Certamente occorre distinguere bene tra la proposta di una spiritualità a chi liberamente la desidera e l’imposizione, che implica sempre una costrizione della libertà. D’altro canto, il fatto che il parroco viva il carisma di un movimento ecclesiale può arrecare un grande beneficio alla sua vita spirituale in quanto la vivifica e l’alimenta, con conseguenze positive nello svolgimento dei suoi compiti pastorali.
Un’altro aspetto importante da considerare è quello che si può definire la “cattolicità della parrocchia”, cioè l’apertura della parrocchia all’universalità della Chiesa e a tutti i doni dello Spirito, tra cui vanno annoverati i carismi di cui sono portatori i movimenti ecclesiali e le nuove comunità. Anzi un segno evidente della cattolicità della parrocchia è costituito proprio dall’apertura delle parrocchie a queste nuove realtà ecclesiali. È vero che la parrocchia è localizzata in una determinata Chiesa particolare, ma è altrettanto vero che ogni Chiesa particolare, di cui la parrocchia è parte, deve essere aperta alla Chiesa universale. In questo senso, il Concilio Vaticano II esortava i parroci ad esercitare la cura pastorale «in modo che i fedeli e le comunità parrocchiali si sentano realmente membri non solo della diocesi ma anche della Chiesa universale» (CD, 30/1, a).
La cattolicità è il migliore antidoto che la parrocchia può usare contro ogni forma di chiusura e di ripiegamento su se stessa, cose che conducono inevitabilmente al campanilismo e alla stanchezza nella pastorale.
Un’altro aspetto da affrontare è l’atteggiamento di sano distacco nei confronti dei parrocchiani che deve caratterizzare l’agire del parroco. Egli ha l’importante compito di servire dei fedeli che gli sono stati affidati, ma non può agire come se fosse il “proprietario” delle loro anime. Esse appartengono soltanto a Dio. La diffidenza e molti dei sospetti che i sacerdoti spesso nutrono nei confronti di queste nuove realtà ecclesiali provengono, in ultima istanza, da questo atteggiamento di sentirsi padroni delle persone. È come se nessun altro dovesse avvicinarsi ai propri parrocchiani, per offrire loro una proposta formativa e addirittura vocazionale, senza che il parroco sia stato previamente informato e abbia data il suo assenso. Il sacerdote che prova un senso quasi di invidia nei confronti di una determinata realtà ecclesiale perché ha successo nel “reclutamento” dei membri, dovrebbe esaminare se stesso per comprendere se per caso non sta svolgendo il suo ministero pastorale con un atteggiamento di esagerato attaccamento alle persone, per diventare più rispettoso nei confronti della loro libertà. Nella sua prima lettera, san Pietro si rivolge agli anziani, cioè a presbiteri, in questi termini: «Pascete il gregge di Dio [...] non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge» (1 Pt 5, 2-3). Sono parole che ci dovrebbero far riflettere.
Due ultimi aspetti da considerare. Come valutare l’atteggiamento di un parroco che pensa che nella propria comunità non ci sia spazio per un movimento ecclesiale o una nuova comunità? Forse pensa che quel carisma possa essere utile per altre parrocchie, ma nella sua certamente no. Credo che quel sacerdote, magari in buona fede, non abbia inteso sufficientemente il concetto che i carismi sono doni che lo Spirito Santo elargisce per il bene comune di tutti i fedeli senza esclusione alcuna, e che nessuno può essere privato dell’azione dello Spirito. La conoscenza di quella determinata realtà ecclesiale e la lotta contro i pregiudizi potrebbero facilitare la ricerca di un clima di comunione più aperto.
Cosa dire, poi, di quelli che pensano che i movimenti ecclesiali e le nuove comunità siano sorti in una situazione di emergenza ecclesiale e che, superata questa fase, essi non avranno più ragione di esistere? In primo luogo bisogna rispondere che queste realtà sono sorte per impulso dello Spirito Santo. Sarà quindi Lui a decidere fino a quando dovranno esistere. Non siamo noi a doverci pronunciare su questo particolare. In secondo luogo, è vero che in determinate epoche della storia lo Spirito suscita determinate istituzioni ecclesiali per sovvenire ad una necessità della Chiesa, ma non necessariamente questi bisogni sono dettati dalle circostanze, anzi in molti casi sono bisogni permanenti della vita ecclesiale che quel carisma viene a soddisfare. La presenza dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità nella Chiesa di oggi potrebbe essere letta in questo senso.



5. Il volto missionario della parrocchia


Mi avvio verso la conclusione. Riscoprire il vero volto della parrocchia non è altro che riscoprire il volto missionario di essa. Questo è quanto già auspicato dal Concilio Vaticano II, quando affermava che «la cura delle anime deve inoltre essere animata da spirito missionario, così da estendersi, nel modo dovuto, a tutti gli abitanti della parrocchia» (CD, 30/1, b).
È finito il tempo di una certa pastorale parrocchiale di mantenimento, oppure dei “servizi minimi indispensabili” nei vari ambiti. Occorre approntare nelle parrocchie una pastorale di evangelizzazione. Almeno nell’Europa occidentale è terminata da tempo l’epoca in cui il parroco apriva la porta del tempio parrocchiale e i fedeli arrivavano talmente numerosi da riempirgli di lavoro pastorale l’intera giornata. Oggi bisogna andare incontro alle persone, molte delle quali sono lontane dalla vita della Chiesa e vivono come se Dio non esistesse. Bisogna favorire l’incontro di queste persone con Gesù, presentandogli l’amicizia con la persona viva di Cristo come una possibilità reale che dà ragione alla propria vita.
È chiaro che il parroco da solo non può arrivare in tutti gli ambienti professionali e sociali. Invece, è proprio in questi luoghi che si trovano a vivere i laici, i quali possono fare apostolato tra i propri colleghi e amici, cioè possono condurre a Dio e ai sacramenti le persone che incontrano quotidianamente. La missione appartiene a tutti i fedeli senza esclusione alcuna, perché Gesù dice anche a noi quello che disse ai suoi apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura» (Mc 16, 15). Un concetto che il vostro fondatore predicò con grande convinzione, da ispirato precursore, nel XIX secolo.
La nota pastorale Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia (30 maggio 2004) presenta la “pastorale integrata”, come lo stile di vita di una rete di parrocchie missionarie permeate dalla spiritualità di comunione, in cui le parrocchie stesse si collegano tra di loro e valorizzano i carismi nella prospettiva dell’unità della missione (n. 11).
Nelle parrocchie dove sono presenti movimenti ecclesiali e nuove comunità, questi possono certamente offrire un valido contributo alla vita missionaria delle stesse, proponendo anche ai più giovani una forma di vita concreta per rendere visibile la vita cristiana.
Per concludere, desidero citare queste parole di papa Benedetto XVI, pronunciate il 17 maggio scorso: «A noi Pastori è chiesto di accompagnare da vicino, con paterna sollecitudine, in modo cordiale e sapiente, i movimenti e le nuove comunità, perché possano generosamente mettere a servizio dell’utilità comune, in modo ordinato e fecondo, i tanti doni di cui sono portatori e che abbiamo imparato a conoscere e apprezzare: lo slancio missionario, gli efficaci itinerari di formazione cristiana, la testimonianza di fedeltà e obbedienza alla Chiesa, la sensibilità ai bisogni dei poveri, la ricchezza di vocazioni»11.



1 Discorso ai partecipanti all’Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici, 22 settembre 2006, in Insegnamenti di Benedetto XVI, II, 2 (2006), p. 331.

2 Ibid.
3 Cfr. J. Ratzinger, I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, in Nuove irruzioni dello Spirito, Cinisello Balsamo 2006, pp. 16-21.
4 Ibid., p. 20.
5 “L’Osservatore Romano”, 16-17 giugno 2008, p. 7.
6 J. RATZINGER, La Comunione nella Chiesa, Cinisello Balsamo 2004, p. 183.
7 Messale Romano, Preghiera eucaristica II.
8 Breviario Romano, Ufficio delle Letture, 4 agosto.
9 GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Redemptoris Missio, n. 72/a.
10 Discorso al secondo gruppo di Presuli della Conferenza Episcopale di Germania in visita «ad limina», 18 novembre 2006, “L’Osservatore Romano”, 19 novembre 2006, p. 5.
11 Benedetto XVI, Discorso ai vescovi partecipanti ad un seminario di studi promosso dal Pontificio Consiglio per i Laici, 17 maggio 2008, “L’Osservatore Romano”, 18 maggio 2008, p. 8.

I laici protagonisti del rinnovamento


Intervista rilasciata alla rivista «Regina degli Apostoli», periodico trimestrale dell’Unione dell’Apostolato Cattolico (Anno LXXXIV, n. 1, Febbraio 2006)


“Concilio significa rinnovamento della vita cristiana”: con queste parole il Papa Paolo VI annunciava la “felice conclusione” del Concilio ecumenico vaticano secondo, avvenuta l’8 dicembre 1965, festa della Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria. Nell’anno appena trascorso, la Chiesa ha celebrato il 40.mo anniversario della chiusura dell’Assise ecumenica, voluta e aperta dal Papa Giovanni XXIII l’11 ottobre 1962, con la famosa invocazione de “una novella Pentecoste”


Tra i 16 documenti approvati dai circa 2.400 Padri conciliari nei tre anni di lavori, figura il Decreto “Apostolicam actuositatem”, sull’apostolato dei laici, un tema questo che, insieme alla spiritualità della Pentecoste, è al centro del carisma “profettico” di San Vincenzo Pallotti. Ma che cosa ha portato di nuovo il Concilio, rispetto al passato, sul ruolo dei fedeli laici nella vita della Chiesa? A questa e ad altre domande, risponde il prelato spagnolo mons. Miguel Delgado Galindo, del Pontificio Consiglio per i Laici.

Il Concilio Vaticano II ha messo in luce la radicale uguaglianza dei fedeli nella Chiesa, in virtù della loro comune dignità battesimale. Tutti i fedeli, siano essi laici, chierici o religiosi, sono stati chiamati a edificare la Chiesa nei luoghi dove Dio ha voluto disporli. Di conseguenza, nella Chiesa non ci sono soggetti “attivi” e soggetti “passivi”, come talvolta si è detto in passato. Attraverso il sacramento del Battesimo, infatti, tutti senza esclusione alcuna, siamo stati chiamati da Dio alla santità e a diventare soggetti corresponsabili della missione della Chiesa. Dunque, ogni fedele edifica la Chiesa, ciascuno secondo il proprio stato: il ruolo che svolge un sacerdote diocesano è senza dubbio diverso da quello ricoperto da un religioso, da un fedele laico sposato o da un celibe. Questi due principi basilari (uguaglianza e diversità) li troviamo già formulati nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium.
Ciò che contraddistingue specificamente la vocazione e la missione dei fedeli laici è la cosiddetta “indole secolare” ossia, le molteplici manifestazioni del proprio modo di vivere nel mondo: lavoro professionale, studio, rapporti familiari e di amicizia, impegno sociale e culturale, sport, divertimento, ecc... Per usare le parole del Concilio Vaticano II, la vocazione propria dei fedeli laici è quella di «cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio» (LG, 31). Questi principi conciliari sono stati oggetto di approfondimento da parte del Servo di Dio Giovanni Paolo II nella sua Esortazione apostolica postsinodale Christifideles laici, del 1988.


Con la felice intuizione che portò alla nascita dell’Unione dell’Apostolato Cattolico, San Vincenzo Pallotti fu nell’Ottocento un “profeta” chiamando i laici all’apostolato, come poi ha fatto il Vaticano II. Nelle attuali società, spesso dominate dal laicismo e dal relativismo, che cosa dovrebbe caratterizzare il laicato cattolico per una presenza veramente efficace ai fini della nuova evangelizzazione?

Direi prima di tutto che i fedeli laici dovrebbero avere una forte consapevolezza della propria dignità come battezzati, come pure del proprio ruolo naturale nella Chiesa e nel mondo. Per conseguire tale consapevolezza è necessaria un’approfondita formazione cristiana. A tal fine disponiamo di due strumenti fondamentali: il Catechismo della Chiesa Cattolica e il Compendio di questo catechismo, che tutti i fedeli hanno il dovere di conoscere molto bene.
Come diceva l’allora Cardinale Ratzinger, in un mondo secolarizzato com’è il nostro, la vera difficoltà non è la scarsità dei cattolici, quanto piuttosto la loro irrilevanza nella società. In questo senso credo che debba essere di incoraggiamento l’esempio dei primi cristiani i quali, nonostante la loro esiguità numerica agli esordi della Chiesa, riuscirono a trasformare dal di dentro una società profondamente pagana come la civiltà romana. A questo proposito vorrei far riferimento a un’immagine usata da Gesù in una delle sue parabole: i fedeli laici devono essere come il lievito che fa fermentare la massa del pane. Senza dubbio in ambienti in cui la cultura predominante è ostile al cristianesimo, la testimonianza della propria fede in Cristo Gesù spinge i fedeli ad andare controcorrente, spesso anche con molta difficoltà, ma questo non deve scoraggiare, perché Dio ci è sempre vicino e il nostro lavoro missionario non è mai vano, perché Egli lo fa sempre fruttare. Per questo bisogna trovare sempre il coraggio di far conoscere la fede alle persone con cui condividiamo la nostra vita: familiari, colleghi, amici, ecc....


Secondo lo spirito del Concilio e la visione del Pallotti, lei non crede che la corresponsabilità di tutti i battezzati a ravvivare la fede e riaccendere la carità comporti oggi una riscoperta della dimensione carismatica della Chiesa accanto alla dimensione istituzionale?

Bisogna qui rilevare che i carismi comportano sempre un rinnovamento della vita ecclesiale, che non è altro che un tornare alle origini dell’avvenimento cristiano, cioè all’incontro personale con Cristo. Il carisma ricevuto da San Vincenzo Pallotti tende a far comprendere ai membri del Popolo di Dio che tutti – fedeli laici, sacerdoti secolari e religiosi – abbiamo ricevuto il mandato di essere apostoli. I documenti del Concilio Vaticano II sottolineano con forza i tratti pneumatologici della natura della Chiesa, che è essenzialmente istituzionale e carismatica al contempo. Un’adeguata comprensione dell’essere della Chiesa ci permette di constatare la reciproca complementarità tra queste due dimensioni. Per istituzione divina, nella Chiesa esistono i servizi gerarchici tra i quali il più importante è quello del ministero petrino del Vescovo della Chiesa di Roma che, come scrive il Papa Benedetto XVI nella sua prima enciclica Deus caritas est citando la celebre spressione di San Ignazio di Antioquia, «presiede nella carità». Allo stesso tempo, lo Spirito Santo elargisce alla Chiesa doni carismatici, che devono essere accolti con riconoscenza e gratitudine. Senza istituzione, dunque, nella Chiesa predominerebbe il disordine e la sopraffazione, ma senza l’accettazione sincera dei carismi ci si verrebbe a trovare nell’irrigidimento spirituale, nella freddezza dei rapporti ecclesiali e, in definitiva, nell’inefficacia missionaria.


Il Concilio riconosce ai laici “il dovere e il diritto all’apostolato, con l’uso dei carismi” che lo Spirito Santo concede ai fedeli come vuole. Come si concilia questa autonomia dei laici con il ruolo dei pastori?

Il ruolo proprio dei fedeli laici si armonizza con quello dei Pastori nell’unica missione evangelizzatrice che accomuna tutti i membri della Chiesa, così come in una nave i diversi compiti dell’equipaggio sono diretti allo stesso obiettivo di giungere al porto di destinazione previsto. I fedeli laici hanno, senz’altro, il diritto di portare a compimento iniziative apostoliche, che per loro natura presentano diverse manifestazioni. Essi sono in grado di annunciare il Vangelo nei molteplici ambienti in cui operano. I Pastori, a loro volta, hanno un ruolo di capitale importanza nei confronti dei fedeli laici, poiché essi forniscono loro i mezzi che li conducono alla santità, mi riferisco in particolare ai Sacramenti e alla predicazione della parola di Dio. Per il conseguimento di questo obiettivo la Chiesa cerca di organizzarsi adeguatamente. È questa una concreta manifestazione del principio conciliare che vede il sacerdozio ministeriale ordinato a servire il sacerdozio comune dei fedeli.


Fin dagli inizi del Novecento e poi con il Vaticano II, le correnti pentecostali e carismatiche hanno portato un “risveglio spirituale” nelle Chiese cristiane. Come vede Lei il ruolo dei movimenti laicali e delle nuova comunità nella Chiesa di oggi e del futuro?

Non c’è dubbio che il movimento pentecostale moderno, nelle sue diverse espressioni, ha avuto un grande influsso in ambito protestante e ha contribuito al rinnovamento interiore di diverse Comunità ecclesiali. Per quanto riguarda più precisamente i movimenti ecclesiali e le nuove comunità nella Chiesa Cattolica, mi sembra opportuno ricordare che Giovani Paolo II, a diverse riprese e in diversi modi, ebbe a dire che essi costituiscono veri e propri doni dello Spirito Santo per la Chiesa nei nostri tempi. I movimenti ecclesiali e le nuove comunità diventano itinerari concreti in cui percorrere la comune vocazione cristiana, ricevuta con il sacramento del Battesimo, sotto la luce di un determinato carisma; contribuiscono alla formazione cristiana dei fedeli laici e alla trasmissione della fede negli ambienti in cui vivono i propri membri, ambienti caratterizzati spesso dall’allontanamento da Dio e dell’abbandono della pratica religiosa. Lo slancio missionario che li contraddistingue è radicato in una fede salda vissuta in modo gioioso e accattivante. Da essi sono scaturite innumerevoli vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. C’è da auspicarsi che questo incoraggiante panorama che contempliamo oggi progredisca nell’avvenire e possa continuare a portare molti frutti alla Chiesa.

Il Santo Padre Benedetto XVI, poco prima di finire il suo primo viaggio apostolico in Germania, in occasione della XX Giornata Mondiale della Gioventù, diceva ai Vescovi tedeschi che la Chiesa deve valorizzare e guidare i movimenti ecclesiali e le nuove comunità, affinché essi possano dare il meglio di sé nell’edificazione della comunità, cercando di evitare qualsiasi forma di ripiegamento su sé stessi e di esclusivismo. D’altro canto, il Papa ebbe a incoraggiare le Chiese locali a riconoscere la ricchezza che rappresentano queste realtà e a comprendere che nell’unica Chiesa di Gesù Cristo ci sono molteplici note che tutte insieme formano un’unica sinfonia della fede.